“Ho denunciato e ho vinto la mafia”

20 anni di scelte coraggiose, dalla denuncia contro i boss di Brancaccio a Palermo che lo avevano schiavizzato con le continue richieste di pizzo e quella forse più decisiva, vivere da uomo libero la sua condizione di testimone di giustizia.
Innocenzo Lo Sicco, imprenditore edile palermitano, rivendica le sue scelte e il diritto non solo di camminare a testa alta e a viso scoperto, ma anche di far sapere che chi denuncia le mafie “Ha vinto”. “Se hai avuto il coraggio di sfidare e vincere la mafia, come io ho fatto, allora ne devi essere orgoglioso”, afferma con convinzione Lo Sicco che Giuseppe D’Avanzo, in un’intervista del giugno 1997 su La Repubblica, ribattezza come l’ ‘uomo chiamato Palermo’.

Sì perché la vita di Innocenzo Lo Sicco, dopo le denunce contro i boss Graviano, Spatuzza, Lupo, cambiò radicalmente. Tre anni di vita blindata, sotto scorta, durante i quali né lui né la sua famiglia potevano essere più palermitani liberi. Liberi di far sapere che avevano deciso di dire no alle minacce, di far sapere che la denuncia che ne seguì aveva portato i boss e la loro manovalanza nell’aula bunker dell’Ucciardone, contribuendo all’operazione Vespri Siciliani con 27 arresti e 136 anni di reclusione inflitti a Cosa Nostra.
Liberi di continuare la loro vita, come prima, da persone libere e oneste. Da persone normali.

Quelle scelte avevano invece innescato un ingranaggio che portava al silenzio obbligato, al divenire una marionetta nelle mani di altri e così essere l’emblema di una vita annullata dalla denuncia. “Ho dovuto superare da solo il primo periodo di sbandamento dovuto al fatto che mi trovavo ad essere soltanto una reliquia ad uso e consumo di chi della mia storia ne faceva una propria attività di carriera nell’ambito dell’antiracket – racconta Lo Sicco – Venivo usato e portato in processione, ma finita la processione mi ritrovavo sempre da solo e con i miei problemi che apparivano insormontabili.” E prosegue: “Racconto un fatto che la dice lunga sul modo di fare di chi vuole gestire le nostre Storie.
Ho avuto un bellissimo rapporto con il Dottor Antonio Manganelli (Capo della Polizia dal 2007 che è venuto a mancare nel 2013, ndr), e chi ha vissuto la mia storia in quegli anni a Palermo sa bene come sono stato da lui sostenuto. Ebbene, a Napoli presso la sede dell’Antiracket era stata intitolata una sala al compianto Dottor Manganelli e chi l’ha organizzato sapeva del rispetto reciproco che c’era tra noi. Questa persona mi invita a quella inaugurazione, e presente tra le altre personalità c’è la vedova del Dottor Manganelli. Inizia la cerimonia, io seduto in fondo alla sala capisco subito che si stava allestendo una scena ‘teatrale’ e che io dovevo recitare. Viene annunciata la presenza in sala di un imprenditore palermitano, eroe, coraggioso ‘bla bla bla’, che avendo avuto il coraggio di denunciare, e che aiutato e sostenuto dal Dottor Manganelli era lì presente per rendere omaggio, e che in quanto inserito nel programma di protezione si raccomandava a tutti i presenti di non fare foto o riprese, perché non poteva e non doveva essere ripreso. Insomma un fantasma, da paura: ero Io! Riuscendo a creare in quella sala un clima di paura, curiosità e finanche di commozione.
Insomma il messaggio che volevo lanciare di vittoria è stato oscurato da quel clima di creata tensione. L’organizzatore gongolava e si complimentava con me della bella riuscita. Ma non era vero, io ero da solo. E preso il treno, come un normale cittadino e da solo, senza neanche accompagnarmi alla stazione dopo la parata, me ne sono andato. Ma il messaggio doveva essere quello: è una guerra e bisogna ‘Avere Paura’!”.

Ma Innocenzo, per tutti Enzo, Lo Sicco ha nuovamente scelto. Ha scelto di andare a vivere a Roma per ricominciare a fare l’imprenditore edile, e ci è riuscito. Ha scelto di tornare quando vuole nella sua Palermo da uomo libero, a viso scoperto, ripercorrendo anche la strada che vent’anni fa lo condusse davanti al portone della Squadra Mobile per sconfiggere l’arroganza della mafia. E ci è riuscito. Ha scelto di non fare il gioco di chi vuole trasformare, anche di fatto, i testimoni di giustizia in una categoria dimenticata, in eroi da sfruttare. E ci è riuscito.
Gli chiedo se ha ricevuto minacce in questi anni, e mi risponde “Mai. Nessuna minaccia, richiesta o intimidazioni. Neanche proiettili che viaggiano per posta. Nulla!”
E poi aggiunge: “Sono un testimone di giustizia che non si è mai voluto nascondere. Sono un testimone di giustizia che ha rinunciato a continuare ad essere blindato. Sono un testimone di giustizia che vive in piena libertà e da normale cittadino e del proprio lavoro, così come lei e tutte le persone di questo mondo. Per me essere testimone di giustizia è motivo d’orgoglio non di reddito.”

Da siciliana, prima ancora che da giornalista, gli chiedo se ha mai pensato di tornare a vivere a Palermo. “Si! E’ il mio sogno – mi risponde – Ma purtroppo resterà tale. Ma non per paura, no! Solo per rispetto della mia famiglia: dopo averli sradicati dalla nostra terra, con rinunce pesanti, adesso che tutti si sono ricostruiti una vita e nuove relazioni, non posso nuovamente sconvolgere le loro vite. Ecco perché resta un sogno chiuso nel mio cuore. Per questa vita è andata così! Ma questa punta di amarezza viene ripagata dell’orgoglio di essere apprezzato da chi mi conosce e mi esprime vicinanza. E comunque continuo a frequentare Palermo.”
Enzo Lo Sicco dopo un lungo e forzato oblio a cui è stato sottoposto per non essersi voluto mettere sotto l’ala di nessun “pennacchione dell’antimafia”, come è solito definire alcune realtà dell’antimafia sociale, vuole far sentire la sua voce, una voce fiera e piena di dignità. Lo fa anche attraverso i social network, dove scrive: “Io la mia battaglia l’ho fatta e vinta, e dopo venti anni dalla denuncia sono ancora vivo e vegeto e vivo da libero cittadino, senza essermi mai nascosto dietro un passamontagna e conservando sempre, orgogliosamente, le mie generalità! Ecco, questo è quello che volevo far sapere, anche a tutti gli amici impegnati sul fronte dell’antimafia: la mafia si vince, ma qualche volta bisogna farlo sapere.”

12 Pensieri su &Idquo;“Ho denunciato e ho vinto la mafia”

  1. Grande esempio di rettitudine e moralità, concordo che è importante non solo vincere sulla mafia ma anche di informare l’opinione pubblica di tali successi. Solo così si può cercare di scardinare il sistema e migliorarlo effettivamente, stimolando la possibilità di emulazione. Grazie per l’importante contributo.

    • Gli esempi ci sono e sono più di quelli che purtroppo emergono. Questa è una storia che fece clamore nel 1997, quando la denuncia arrivò tra le prime nel suo genere. Dopo l’omicidio di Libero Grassi. Poi silenzio. Ma come le altre merita di essere conosciuta.
      Grazie delle riflessioni, Daniele. A rileggerci.

  2. È certamente il suo un grande esempio di civiltà, e tanto di cappello rispetto ai sacrifici ed ai cambiamenti a cui ha dovuto sottoporsi (coinvolgendo anche la famiglia), ma è pur vero che non sempre queste storie di denuncia risultino essere così limpide e lineari e “conclude bene”. Ben vengano questi episodi, magari ponendosi come esempio possono stimolare nuove denunce in grado di squarciare il muro dell’omertà.

    • Anche se una poccola comunità, i testimoni di giustizia hanno storie una diversa dall’altra. Bisogna poi distinguere tra chi ha lo status di testimone e chi non ce l’ha, pur avendo denunciato. Parlare di queste vite, e storie, come hai detto anche tu serve a diradare ogni ombra e dubbio.
      Grazie delle considerazioni.

  3. Quando leggo articoli di questa fatta rimango sempre per metà ammirato e per metà perplesso, un plauso ai cittadini che hanno il coraggio di denunciare e una lunga tirata d’orecchie a uno Stato che ha deciso di combattere la mafia, le mafie, adottando la comoda strada della delazione prezzolata. Forse sarò poco allineato ma vivo da sempre nella ferrea convinzione che se anziché spendere miliardi sul “pentitismo” (spesso una mietitrebbia che falcia innocenti, dal caso Tortora a venire), si investisse in tecnologia, formazione e nuovi metodi investigativi, si otterrebbero risultati migliori a costi inferiori, soprattutto non si metterebbe a rischio la vita di innocenti. L’errore base è stato trasferire il suddetto sistema dalla lotta al terrorismo alla lotta alle mafie, eppure non era difficile capire la differenza, una momentanea deriva ideologica violenta non ha niente da spartire con radici secolari di un fenomeno culturale.
    Chiedo venia per il fuori tema

    • Non sei affatto fuori tema con queste considerazioni. Il binomio lotta alle mafie e lotta al terrorismo è reale, tanto che organi di indagine come la DNA si occupano tutt’ora di entrambi i fenomeni. Credo che nel caso dei testimoni di giustizia e del valore sociale che rappresentano pesa un po’ più la volontà di dare un ruolo prevalente, anche in termini di diritti e tutele, ai collaboratori di giustizia o ‘pentiti’. Questo l’ho raccontato in un articolo riportando le dichiarazioni del Sostituto Procuratore Maurizio De Lucia. Ma lo dimostra il fatto che l’unica legge al momento esistente su collaboratori e testimoni, la 45 del 2001 non è mai stata concretamente applicata. E che la proposta di legge che ha per oggetto l’esclusiva tutela dei testimoni di giustizia, in discussione al Parlamento, è ancora ferma e oggetto di rimpalli politici. Quindi, come tu stesso dici, a maggior ragione esempi cone quello di Enzo Lo Sicco e altri sono importanti. Perché sono storie limpide di legalità e lasciano all’opinione pubblica più libera di scegliere da che parte stare. E che questo soprattutto non rappresenta una sconfitta.
      Mi fa piacere comunque rileggerti. E grazie del tuo contributo di riflessioni.

      • sono d’accordissimo e sono anche consapevole del labirinto dedalico che arzigogola la questione. Come cittadino mi pongo un problema etico, morale, vorrei un corpo inquirente capace di combattere le mafie senza scendere a compromessi con pendagli da forca, senza lasciare liberi, protetti e lautamente stipendiati feroci assassini. Come dicevo, sono convinto la cosa si possa fare addirittura spendendo meno. Il dubbio che attanaglia è sempre lo stesso, eliminare un problema significa eliminare, automaticamente, la struttura creata per combatterlo/gestirlo. A chi gioverebbe??? Quanti morti innocenti ha prodotto il pentitismo??? quanti innocenti in galera, rovinando loro la vita per sempre, ha mandato il pentitismo??? E’ giusto stipendiare e tenere in libertà un assassino delatore??? Secondo me no ma io non ho voce in capitolo.

      • Certamente ha un costo. Ma è difficile stabilire il quanto reale purtroppo.
        I tuoi dubbi li condivido. I fatti d’altronde parlano di una realtà che non si ha la minima intenzione neanche di mettere in discussione. Perché serve. E per non fare storcere il naso a chi si fa giuste domande, come hai fatto anche tu, non si parla mai di pentitismo e delle alternative ad un certo sistema di lotta alla criminalità organizzata. E tanto meno dei costi. Ci sono cose che si tacciono e altre che si mistificano. Ed è questa voluta, costante, mancanza di trasparenza che è già una risposta anche alle tue domande.

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