Ci sono due ville a Roma, confiscate dal 2014 alla mafia e frutto di proventi illeciti da milioni di euro, che continuano a sollevare un vespaio di polemiche. Due ville che secondo i male informati erano tre. Due ville di cui almeno una si diceva avesse all’esterno anche una piscina, che in realtà nessuna delle due abitazioni possiede. Due ville, una abitazione e l’altra accatastata come ufficio, della cui confisca e destinazione sociale gli abitanti della zona hanno saputo per caso, a distanza di tempo. “Noi lo abbiamo saputo perché è stata fatta una rapina a casa di un signore confinante con la villa – dice Sandro Maggiorano, presidente del comitato di quartiere Eur insieme – Nella chiacchierata post rapina è uscito fuori che il vicino era venuto a sapere dell’iniziativa (confisca e assegnazione della villa, ndr), e così ce lo ha comunicato”.
Nessun foglio bollato a sigillare l’ingresso delle ville, non un segno visibile che dica a tutti a nome dello Stato ‘Questo bene è stato sottratto alle mafie’. Una riservatezza, quasi timidezza, dello Stato nel momento della confisca dei beni che non è limitato a queste due ville ma che è quasi una regola nelle confische di patrimoni immobiliari delle mafie. Un riserbo che spesso crea poca trasparenza sulla gestione di questi beni e ne rallenta il riutilizzo. Finendo a volte, come nella vicenda di una di queste due ville, per diventare prima interpellanza parlamentare e poi persino una vicenda giudiziaria.
Partiamo dall’inizio della storia. Da quando una delle due ville di lusso, assegnata al Comune di Roma dal Tribunale ordinario nel settembre 2014 e presa in gestione dall’amministrazione capitolina meno di un anno dopo nel maggio 2015, viene destinata ad un progetto sperimentale di casa famiglia protetta, in base alla legge Severino 62/2011. Il progetto chiamato ‘Casa di Leda’ porterà in uno dei due fortini che si affaccia tra via Algeria e via Kenia, nella zona residenziale del quartiere Eur, sei detenute madri con i loro sei bambini di età inferiore a dieci anni. Un’iniziativa socialmente innovativa che punta a dare un nuovo futuro a bambini che, vivendo spesso dalla nascita in carcere con la madre, sono condannati a un’infanzia negata e a rivedere probabilmente le sbarre; un’idea che diventa un messaggio simbolico se ad accogliere l’iniziativa è un luogo strappato alle mafie e a soggetti cui stanno per aprirsi le porte del carcere. “Adesso stanno individuando quali donne possono accedervi, ci sono i tempi burocratici della giustizia per verificare i vari profili delle donne – spiega Lillo Di Mauro, vicepresidente della cooperativa Cecilia onlus che gestirà la Casa di Leda – Sono donne che accedono agli arresti domiciliari o piuttosto a pene alternative, persone che hanno espiato la loro pena o sono in fase di espiazione ma che non hanno compiuto reati gravi, e per questo possono accedere agli arresti domiciliari. E per chi non ha una casa diventa anche il luogo a cui accedere per gli arresti domiciliari”.
Un progetto definito in un protocollo d’intesa sottoscritto nell’ottobre 2015 oltre che dal Comune di Roma anche dal DAP, Dipartimento di amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia, e da Fondazione Poste Insieme onlus che con un contributo di 150.000 euro ha garantito all’iniziativa “la copertura degli oneri necessari alla sua gestione”per il 2015, con “possibilità di ulteriori stanziamenti”. Un documento che al suo articolo 1, tra le finalità dell’accordo, prevede la “Promozione di azioni concordi di sensibilizzazione nei confronti della comunità locale rispetto al sostegno e al reinserimento di persone in esecuzione penale”. Un coinvolgimento del quartiere che sarebbe mancato, con la conseguente agitazione degli abitanti delle ville limitrofe. “La scelta è quanto di più sbagliato si possa fare – commenta Sandro Maggiorano, del comitato di quartiere – Il posto scelto per questa iniziativa, se vogliamo parlare di inserimento sociale, di reintegrazione sociale, mi sembra il meno indicato. Nelle vicinanze non ci sono asili pubblici, solo privati che hanno un costo. Gli asili pubblici ci sono ma sono a 4 chilometri di distanza. Per fare la spesa queste donne come fanno? Dove sta l’integrazione qui?”.
Una polemica cui ha fatto seguito nel marzo del 2016 un esposto/diffida del comitato di quartiere al comune di Roma e, poco dopo, due interpellanze politicamente trasversali, prima di Renato Brunetta e poi di Ileana Argentin. Una rabbia dovuta anche al fatto di non aver potuto partecipare con propri progetti alla destinazione della villa. “Noi abbiamo una proposta che è ospitare un’associazione che gestisce i genitori che hanno bambini in cura oncologica. Ci sembrava una destinazione onorevole e sicuramente più fattiva, anche perché è a costo zero per il Comune di Roma”, aggiunge il signor Maggiorano. Già, i costi a carico del Comune di Roma. Anche questo aspetto ha alimentato le discussioni tra gli abitanti del quartiere attorno a questa villa contesa. Il Comune di Roma infatti ha preso in gestione nel 2015 la villa in “comodato d’uso gratuito” con l’impegno di “individuare gli oneri e la relativa copertura necessaria al mantenimento in buono stato degli immobili acquisiti in comodato, fino a quando i medesimi non saranno assegnati”. Successivamente il coinvolgimento del Comune capitolino si è esteso al pagamento delle utenze, ma non ci sarebbe traccia di questo impegno nelle carte del Comune. Un aggiornamento che, sottolinea il comitato di quartiere, necessita del “nulla osta dell’ufficio ragioneria del Comune, ma l’ufficio ragioneria non ha mai avallato questa determina”. Ho chiesto chiarimenti in tal senso all’ufficio dell’assessore capitolino alle Politiche sociali Laura Baldassarre, da cui aspetto risposta. Gli abitanti del quartiere però hanno scelto una via più immediata, veloce, e raccolte tutte le richieste rimaste inascoltate hanno presentato la scorsa primavera ricorso al Tar del Lazio contro questa iniziativa. La richiesta di sospensione urgente del progetto è stata però rigettata perché “il ricorso non si presenta assistito dal necessario fumus”, come recita la sentenza. “E’ stata respinta l’urgenza non il merito, che potrà essere discusso in altra data” puntualizza Sandro Maggiorano, del comitato Eur insieme.
Non demordono affatto i cittadini e i confinanti della villa, anche adesso che manca poco all’apertura della casa famiglia protetta. E non fanno mistero del sospetto che in quella villa su tre piani da 600 metri quadrati, con finiture di lusso, “parti decorate con imbotti in legno”, pavimenti in marmo e parquet, e un’ampia e “pregevole” scala in legno che porta al piano superiore (come da descrizione contenuta nel verbale di sopralluogo nella villa), che proprio qui, accanto alle loro abitazioni, vengano ospitate donne rom. E non ci stanno ad essere accusati di razzismo. “Il razzismo non esiste perché noi qui in zona abbiamo avuto tante casa famiglia – commenta il presidente del comitato, Sandro Maggiorano – Questa non è questione di razzismo ma è frapporsi ad una questione che è chiaramente di comodo. Quello che ci infastidisce non è la presenza dei rom, ma l’approssimazione di questa iniziativa. All’opinione pubblica si fa vedere questa immagine romantica delle mamme con bambini, ma secondo la legge Severino in assenza di mamme possono essere accolti anche papà detenuti, il che cambia completamente la questione. Si tratta di vite umane, non solo quelle che vivranno lì dentro ma anche chi vive accanto, che dovremo interagire.” E aggiunge: “Vorremmo ci fosse dietro un progetto concreto. Anche perché l’amministrazione non è padrona, l’abbiamo eletta noi. Non possono fare quello che vogliono”.
Dal canto suo Lillo Di Mauro, vice presidente della cooperativa che gestirà la Casa di Leda, sulle polemiche commenta: “La città non è di proprietà di nessuno. Nella città c’è il disagio, c’è il benessere, ci sono tante cose che devono convivere insieme. Non si può escludere qualcuno per un altro.”
Esclusioni e polemiche che rischiano di agitare ancora le sorti di questa villa. Una condizione che rischia di compromettere anche la destinazione della seconda villa confiscata, che è previsto debba ospitare una “casa famiglia per minori provenienti dal circuito penale minorile”. Su questa destinazione e sul futuro della villa destinata a casa famiglia protetta si aspettano le risposte dell’assessore Baldassarre, che con le sue parole potrebbe restituire maggiore trasparenza alle vicende di questa villa e dei cui chiarimenti vi terrò informati sulle pagine de La Lente.
Così, di fronte ad una partecipazione completa ed effettiva dei cittadini si toglierebbe terreno ai razzismi, ai pregiudizi e ai sospetti. Perché la ‘roba’ loro è, comunque, di tutti.
Qui le immagini delle due ville.
Non entro nel merito del progetto, quello che contesto è la mancanza di trasparenza di queste gestioni e dei beni pubblici in genere. Ci vuole la pubblicità di queste iniziative e l’indicazione dei responsabili del progetto, che devono rendere conto dei costi e dei risultati. Se questi sono negativi devono essere rimossi. Purtroppo in Italia non avviene così.
La mancanza di trasparenza è purtroppo uno dei grandi limiti nella gestione dei beni confiscati. si tratta di beni che dopo la confisca diventano spesso “roba” dello Stato che pensa gli appartengano in via esclusiva. La partecipazione dei cittadini è fondamentale nei processi decisionali. Purtroppo spesso manca anche l’impegno all’assegnazione del bene stesso.
Grazie Daniele del contributo.
Se da un lato hanno ragione di protestare per una gestione di certo non all’altezza del progetto, da un altro lato della visione c’è la paura, anche se il presidente dei cittadini smentisce, che il quartiere perda prestigio.
La parte positiva è che non si è lasciato marcire l’oggetto, come spesso accade, quella negativa è una gestione spannometrica del bene e tante incognite sui costi di gestione.
Esattamente. La domanda esplicita gli è stata posta, ma la risposta che ho ricevuto è stato un no secco come scritto. Il problema è che quando la gestione dei beni confiscati è poco trasparente e coinvolge solo alle ultime battute i cittadini, informandoli più che altro, certe ostilità aumentano. Il comune è lo Stato dovrebbero essere sempre inattaccabili, specie se maneggiano patrimoni così simbolici.
Grazie delle tue riflessioni.
grazie a te per la chiarezza espositiva.
Quello che traspare, come già detto da altri, è la poca trasparenza nella gestione di questi beni. E poi mi chiedo una cosa: perché lo Stato non pubblicizza questi beni confiscati? Sono cose che nessuno conosce, spesso neanche chi ci vive accanto sa che sono beni confiscati alle mafie. Questi rappresentano un trofeo nella lotta alla criminalità organizzata e lo Stato sembra quasi vergognarsi di queste vittorie. Perché?
E poi, mi permetto di aggiungere che dai comportamenti dei cittadini si evince un certo razzismo.
La mafia si sconfigge con l’informazione e la cultura!
In realtà basterebbe un foglio ufficiale bollato dallo Stato e appeso all’ingresso, come accade in vicende di cronaca nera per fare un esempio. Sarebbe già quella una forma di informazione. E queste carenze non aiutano né la conoscenza di questi beni né la comprensione del ruolo che hanno questi patrimoni nella lotta alle mafie. Sono tanti quelli che si chiedono perché vengono confiscati, perché la confisca a carico di chi ancora non è stato condannato, e altre domande che spesso aumentano la diffidenza nello Stato. Ebbene, basterebbe parlarne di più di questi “trofei” come li hai definiti di legalità.
Grazie delle tue riflessioni, Davide.